Archivio mensile:Dicembre 2014

TUTTO È RELATIVO TRANNE IL CAOS

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Omaggio al “figlio del Caos” a 80 anni dal Premio Nobel

Tornare periodicamente a parlare di Pirandello è in qualche modo fatale, non solo come ora in occasione di un significativo anniversario. Lo è in ogni stagione così come è ricorrente interrogarsi sul senso della vita nella misura breve dell’esistenza individuale e in quella più ampia del percorso dell’umanità. Con il ghigno dell’uomo dal fiore in bocca, l’autore gioca con gli opposti, spingendo i suoi personaggi fino al parossismo, facendo perdere i confini tra vittima e carnefice, realtà e finzione, attraendo il lettore/spettatore in un vortice, un gioco di specchi che stordisce e ipnotizza.
E allora “ben ritrovato Don Luigi. Baciamo le mani”, come direbbero i suoi conterranei. Pirandello sebbene profondamente radicato nella sua terra, ha saputo spaziare, andare oltre, fino ai confini geografici e metaforici, là dove la mente incontra la verità e scorge la pazzia.
Nato a Caos, una borgata di Girgenti, l’odierna Agrigento, ebbe a dire dei suoi natali: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
La contrada Caos, immersa nella macchia mediterranea, “luogo dove avvengono i naufragi”, assurge a paradigma del disordine, della casualità, quasi a prefigurare quelli che saranno i temi dominanti dei suoi lavori, la perdita degli assoluti, la frammentazione della personalità, il relativismo psicologico e conoscitivo che permea le relazioni umane e che fa dire ad uno dei suoi più noti personaggi “Per me, io sono colei che mi si crede.”
Pirandello inizia i suoi studi universitari a Palermo per poi trasferirsi a Roma dove si dedica agli studi di filologia romanza. Anche a seguito di un conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino si reca in Germania, a Bonn, dove si laurea nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlata di Girgenti. Ancora una volta le radici si intersecano a terreni inesplorati, il passato si protende verso il futuro, la memoria crea e prefigura ipotesi nuove. Lo scrittore siciliano si colloca tra due estremi, il Mediterraneo e il Nord Europa, la passionalità siciliana e la ragione germanica. Ben conscio che entrambe le coordinate sono già di per sé ibride e oscillanti, accolgono nel profondo il loro opposto.
Dopo questo “esilio” teutonico, vennero i decenni romani. Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da Luigi Capuana negli ambienti giornalistici e letterari, si dedicò a un’intensa attività pubblicistica e saggistica culminata nel fondamentale saggio L’Umorismo del 1908.
Il tracollo dell’impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l’acuirsi dei disturbi nervosi della moglie Antonietta di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica.
Dal 1915 fu il teatro ad assorbire tutte le attenzioni di Pirandello. Divenne direttore del Teatro d’Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice Marta Abba, con la quale intrecciò un’intensa relazione.
In Pirandello l’influenza delle vicende personali ha un enorme rilievo sull’opera letteraria. In modo specifico il disagio, inteso come squilibrio, privazione, difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale definito e appagante, fa sì che molti dei suoi personaggi, pur nelle differenze sociali, abbiano in comune il fatto di essere estranei, tormentati, costantemente ai margini, oscillanti tra rassegnazione e ribellione, ragione e follia.
Non è un caso, nell’ottica di questa tensione costante vissuta sia in prima persona che di riflesso, che Pirandello, per sfuggire alla morsa delle antinomie esistenziali, amasse trascorrere lunghi periodi dell’anno nella quiete di Soriano del Cimino, in provincia di Viterbo, una cittadina ricca di storia immersa nei boschi: la memoria resa più docile dalla natura. In particolare rimase affascinato dalla quiete di un castagneto nella località di Pian della Britta. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino, citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti, anche due tra le sue più celebri novelle, “Rondone e Rondinella” e “Tomassino ed il filo d’erba”.
Frequentò anche Arsoli, soprattutto d’estate. Amava dissetarsi con una gassosa. Il sapore della semplicità in un minuscolo paese che definiva con ironico affetto “La piccola Parigi”.
Nel sole della pace campestre Pirandello si disseta con un pensiero lieve, quasi rassicurante. Ma nel sole accecante che tutto sovrasta, il pensiero insegue una realtà altra, aspra e complessa.
Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana di Capuana e Verga, Pirandello concentra la sua attenzione sulle contrapposizioni esistenti nei personaggi e nelle trame, tra essere e apparire, tra forma (maschera) e vita (autenticità).
L’inquietudine propria dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi di una società priva d’ideali, il dissidio interiore creato dall’impossibilità di comunicare, produce personaggi e vicende avvolte dal caos.
Numerose opere pirandelliane indagano sul rapporto tra realtà e finzione. Tra queste una meno conosciuta ma notevolmente emblematica è senz’altro “All’uscita”, atto unico scritto nel 1916, inserito nella raccolta Maschere nude.
I cardini del testo sono quelli cari all’autore: l’interazione tra teatro e vita, tra la filosofia che prova a dichiarare solenni verità in seguito puntualmente sgretolate dalla realtà. L’effetto ineluttabile è un riso ironico e autoironico, il sentimento del contrario, un filo di illusione tenuto stretto tra le dita. Cardini fragili, soggetti a schianti e corrosioni. Ma pur sempre i soli che abbiamo.
La scena in cui si dipanano i dialoghi è quanto mai allegorica: un cimitero di campagna, avvolto da una nebbia grottesca, tragicomica. Una foschia che fa venire in mente Dante, ma anche Fellini, e perfino certi fotogrammi di alcuni film di Totò, attore a tratti pirandelliano, a suo modo, forse senza volerlo.
In questa atmosfera spettrale si muovono i protagonisti, dei fantasmi appunto: un placido borghese, etichettato come L’Uomo grasso, e, sul fronte opposto, l’intellettuale, ovviamente tormentato, denominato Il Filosofo. Quest’ultima figura è una maschera nuda e trasparente dello stesso Pirandello. Una delle occasioni in cui uno scrittore sente il bisogno di far uscire da sé le parole e le idee che ospita all’interno e che premono, scalpitano, urlano. All’uscita dalle tombe le anime trapassate si ritrovano in una condizione identica a quella vissuta e sofferta sulla terra: l’attesa. Ogni riferimento all’assurdo, sia teatrale che esistenziale, da Godot ai morti ciarlieri di Lee Masters, è volutamente palese. Che fare, dunque? Resta l’arte tutta umana della ricerca di un senso, anche nel buio, a tentoni.
Pirandello svolge un ruolo di anticipatore, aprendo la strada ad alcune delle maggiori innovazioni a livello letterario e non solo. Prefigura la rivoluzione che verrà poi sviluppata da Bertolt Brecht: i personaggi scavano in loro stessi e si raccontano in modo oggettivo, come se si osservassero dall’esterno. Tutto ciò allontana il personaggio dallo schema in voga per secoli, si estrania dall’adesione totale al ruolo, si osserva vivere. Si guarda dentro, scoprendo suo malgrado che “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla” e scoprendo che “Nulla è più complicato della sincerità” (da Novelle per un anno). La seconda innovazione fondamentale di Pirandello consiste nell’aver portato sulle scene il senso di solitudine proprio dell’uomo moderno e l’incomunicabilità con i suoi simili: “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove dunque l’estraneo siete voi” (Da Uno, nessuno e centomila).
La pazzia è il rischio che corrono le figure pirandelliane, sospese tra ricerca di consistenza ed il loro intimo squilibrio. Questa ansia costante, riflessione senza tregua sul senso del vivere, li conduce inesorabilmente ad un esasperato cerebralismo. Ma la forza dell’arte pirandelliana è proprio nella sua totale identificazione con le sue “maschere nude”, con la loro addolorata ricerca di una sincerità necessaria e impossibile, in ogni caso lacerante.
Uno degli esempi più noti in quest’ottica si trova nei Sei Personaggi in cerca d’autore i cui protagonisti, “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, cercano un autore per rappresentare un dramma a tinte fosche. Da questa ricerca e dalla relativa attesa scaturisce una commedia, una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere.
Ma la grandezza di Pirandello, la sua portata innovativa va ricercata ben oltre la motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel nel 1934 ossia “Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”. Le opere di Pirandello infatti hanno avuto un’influenza sulla narrativa, la filosofia, la psicologia e non ultimo l’arte cinematografica. Si pensi al tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione sviluppato da Bergman e Antonioni, alla continuità tra sogno e vita nei film dello stesso Bergman e Luis Buñuel, alla molteplicità dei punti di vista che ispira Akira Kurosawa o al camaleontismo raccontato da Woody Allen con Zelig.
Continua a riflettere e a far riflettere, Pirandello, esplorando da ogni possibile angolazione il sentiero che unisce e separa la verità e il suo contrario, il ponte sull’abisso del caos esistenziale, il fluire inarrestabile il cui solo senso sicuro è la costante mutevolezza.

Ivano Mugnaini

GUARDARE LE FORMICHE

Divagazioni semiserie su Luigi Malerba e i suoi “Consigli inutili” Quodlibet, 2014
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Un consiglio se non è inutile non è buono. Non è un paradosso, o, almeno, non lo è quando si parla di letteratura e di tutto ciò che vi è correlato, filosofia, ragione, follia, forse perfino la vita. Un consiglio è buono se ti conduce a riderne, per poi, un istante dopo, ripensarci sopra, con un riso modificato, quasi geneticamente, concludendo che forse, tutto sommato, non è vero, certo, ma potrebbe anche essere vero, anzi, forse è vero proprio perché non lo è, perché non dovrebbe essere così. Su quel terreno fertile e friabile, quella terra vulcanica e pericolosa che sa di zolfo e di humus, di secoli antichi ma anche dell’urgenza del presente, si è sempre mosso Luigi Malerba. Su quel versante vulcanico costantemente sospeso tra il rischio della deflagrazione e il gusto del ragionarci sopra, magari quando si vedono già lapilli rosso fuoco. Malerba si muove tra gli ossimori, danza con studiata lentezza tra pareti di diversa natura che fanno da specchio le une alle altre creando sempre un’immagine altra, una prospettiva aliena, un punto di vista ulteriore. L’ossimoro per eccellenza è quello celato nell’intento del consiglio: ci avvisa del rischio, dell’assurdo, sapendo di non essere ascoltato, essendo perfettamente a conoscenza dell’inutilità del messaggio. Il vulcano esploderà, anzi, è già esploso e i più non se ne sono neppure accorti. Ma allora perché dispensare la parola, l’esercizio vitale del comunicare? Per quei pochi che ascolteranno, per consolarci, per ridere insieme dei vivi e dei morti, dei sordi e di quelli dotati di udito? Forse perché il consiglio deve essere dato a prescindere, fa parte del gioco, anzi, è il gioco, senza il gioco della parola, crudele ed essenziale, non esisterebbe la terra, il vulcano, il pomodoro e la vite, l’assurdo e il sublime.
Malerba è un prestidigitatore. Uno che avrebbe potuto mettersi a un tavolo e spennare tranquillamente tutti i polli. Avrebbe potuto mostrare agli occhi degli altri solo quello che gli faceva comodo, mani rapide, ma anche uno sguardo serio e monotono, tutto sommato rassicurante. Avrebbe ottenuto un’attenzione ammirata ma serena. E invece no. Ha voluto mostrare il trucco, la finzione che è insita nel meccanismo stesso, nell’utilizzo della carta come codice, oggetto simbolico. Ci ha mostrato che ogni seme in realtà contiene altri segni, solo in apparenza invisibili. Ogni carta ha due facce, e, dal raffronto di esse, deriva una figura differente, o un numero che varia a seconda dei contesti e delle situazioni. Ecco perché, descrivendo episodi apparentemente banali o comunque “normali”, intrisi di quella ordinaria follia a cui siamo assuefatti, ci consiglia di diffidare, delle luci del locale, di chi ci siede a fianco o sopra, e, soprattutto di noi stessi.
L’uomo è l’oggetto dello studio, anche quando l’attenzione si concentra “sugli alberi e sui suoni da essi prodotti”. L’uomo è l’eterno interrogativo, senza risposta o con innumerevoli risposte. Lo sguardo è diretto, crudo, mai connivente. Eppure, alla fine, se si ritiene qualcuno degno di ricevere un proprio consiglio, forse lo si considera ancora salvabile, oppure, semplicemente, si vuole ragionare sul perché della sua traiettoria, quella specie di “inchino schettiniano” che sarebbe stato bello poter vedere commentato da Malerba, lui che subiva il fascino senza tempo dell’anomotecnicon, l’esperto dei venti.
In fondo Malerba stesso ha condotto in ogni suo scritto uno studio su quella materia immateriale eppure imprescindibile che è la parola. Ne ha colto la natura essenziale, quel suo fare la differenza tra la fluidità dell’acqua e il rischio letale dello scoglio, tra comunicazione e rumore, comprensione e fallimento del dialogo. Ha sempre scelto rotte difficili, volutamente. Si è sempre mosso lungo direttrici che richiedono mappe nautiche molto dettagliate. Ma non ha mai lasciato a terra nessuno. Come hanno osservato più volte vari critici, tra cui Umberto Eco, l’utilizzo del double coding, pone in gioco la possibilità di una doppia lettura. Malerba “non invita tutti i lettori a uno stesso festino, […] li seleziona, e predilige i lettori intertestualmente avveduti, salvo che non esclude i meno provveduti. Il lettore ingenuo, se per caso l´autore mette in scena un turista ingenuo che, sbarcando al Charles De Gaulle, dice Parigi a noi due!, non individua il richiamo balzacchiano, e tuttavia può appassionarsi ugualmente alla spavalderia di quella figura comica. Il lettore informato “becca” invece il riferimento, e assapora la citazione che in quel caso produce un effetto di abbassamento”.
Nessuno scrittore degno di tale nome sceglie di lasciare immobili sul molo con la valigia in mano tre quarti dei suoi potenziali passeggeri. Si tratta solo di immaginare e creare preventivamente percorsi differenziati, oggi le agenzie parlerebbero di “itinerari personalizzati”. L’importante è che tutti i passeggeri, di qualsiasi genere, qualunque sia la cabina in cui si vanno a collocare, sappiano bene prima di salire a bordo che il viaggio c’è ma in realtà non c’è, o forse che non c’è ma in verità è reale. Se solo potessimo stabilire cos’è la realtà. Si tratta di rendere chiaro, tramite tutte le complicazioni possibili e immaginabili, tramite gli arabeschi di tragitti circolari e panoramici, che è tutta una menzogna, una menzogna geniale, per dirla ancora con Eco, ma sempre e soltanto una finzione. Pirandello riflettendo su questa consapevolezza si sarebbe toccato la testa dolente e avrebbe chiuso mezzo occhio con un profondissimo tic. Malerba sulla medesima presa d’atto ci fa toccare la testa surriscaldata mentre ci osserva fumando la pipa e scrutando la nostra sorpresa per tutto ciò che abbiamo compreso e tutto ciò che crediamo di avere compreso. Ghigna, e ridiamo anche noi, con un riso amaro ma sapido.
Un resoconto inattendibile, una verità che sfocia nella menzogna, una barzelletta senza finale o con un finale volutamente anticipato o deliberatamente spiazzante. Oppure, appunto, un consiglio inutile. Ma, in quest’ottica, se il resoconto rende conto di altri numeri e altri segni, se della verità si svela la natura ambigua e bifronte, allora, beh, come non detto: il consiglio non è inutile un bel niente! Diventa utilissimo, il consiglio. Per evitare di ascoltare nel nostro sdrucciolevole presente accorati consigli dall’arringatore di turno che vorrebbe darci a bere che di consiglio valido ce n’è uno solo, il suo. Per tenerci alla larga da quel tipo che vichianamente riappare sulla scena italiana, quello che ne I Neologissimi, pubblicati di recente dai Quaderni dell’Oplepo, Malerba definisce con un’acrobazia linguistica aspra, divertita e tagliente, “ammalùcco”, “andreòtto” o, all’occorrenza, “bugiàdro” e “personàccio”.
Ecco, forse questo stravolgimento della parola, mai causale, mai fine a se stesso, è di per se stesso la chiave, o forse una delle chiavi possibili. O magari contiene l’unico consiglio vero, quello di non tenere conto delle cose così come sono, o meglio di tenerne conto ma con un salvifico mélange di serietà e distacco, attenzione e disincanto. Come un bambino che osserva il giocattolo con uno sguardo tanto intenso da lasciar presagire che il gesto successivo, ineluttabile, necessario, sarà quello dello smontaggio. Ne nasce qualcosa di nuovo, un occhio diverso, un nuovo modo di osservare e raccontare. Con queste rinnovate pupille si impara di volta in volta, grazie a Malerba, l’arte di indagare su “L’utilità del treno”, oppure sul modo più o meno congruo di usare “La pipa”, oggetto caro all’autore, non solo nella sua funzione simbolica. Ma soprattutto, accanto alle “Biografie immaginarie”, in cui ci beffa dell’esattezza dei dati e dei moduli, delle anagrafi e dei resoconti di vite, morte e presunti miracoli, si giunge al sacro atto di “Guardare le formiche”. La ricchezza della costante ambivalenza di senso e contenuto propria di Malerba ci fa intuire, mentre ancora una volta sorridiamo, che in effetti in quell’attività apparentante vana c’è tutto il senso possibile. Quell’animaletto nero e scuro come un segno d’inchiostro porta tenacemente sulle spalle un carico di un peso identico al suo: il senso del suo agire e la sua assurdità, la sua minuscola e tenace verità e il fardello della sua inutilità.