Archivio mensile:Novembre 2014

SHINING

kubrick

Osservazioni postume di Stanley Kubrick –

Non posso non amarlo. Il vento è rabbia, gioco, guizzo improvviso. Un bambino che vola su un prato a braccia spiegate, urlando, fischiando, ridendo ad ogni piega della sua inafferrabile corsa. Non come me. Non come il mio mulinare di gambette isteriche su un ridicolo triciclo di plastica. Gesti meccanici, condizionati. Binari invisibili percorsi da scariche nervose. Ho trascorso la vita intera a cercare di liberare quel bambino. Dal mondo e da me stesso.

Ma rifluisce, giorno dopo giorno, l’ondata vermiglia che invade la stanza. Fiele stillato da bulbi pulsanti, gli occhi strabuzzati di un urlo che ti squarcia, acciaio che penetra lento. Ho nutrito per mesi il feto tremolante di quelle immagini. Ho lottato per farlo sgusciare fuori dagli occhi, per liberarmene, per stringerlo tra le mani, amandolo, nell’odio ineluttabile.

E gli altri a dire “è bello”, oppure “è orrendo, schifoso”, senza sapere cosa né come.

Ma a volte sono fuggito. L’ho raggiunto, a volte, il vento del tempo. Sono corso avanti e indietro, sempre sentendo il presente conficcato nelle carni. Ho esplorato la preistoria ed il futuro. La mia misera, aurea libertà.

Ho afferrato il profumo di primavere lontane, le carezze, il riflesso della luce nel verde dei prati. Ho scordato le grida di orrore, per qualche istante. Mi sono strappato di dosso il fango indurito della guerra.

Ho sempre preferito il tepore di due braccia sincere all’acciaio eroico dei moschetti e dei cannoni. Anche il tepore effimero di un incontro occasionale. La dolcezza senza futuro di una notte d’amore. La signora generosa incontrata per caso da Barry Lyndon. Colori pastosi ritrovati in un angolo di sole. L’azzurro intenso di un lago, l’ocra delle colline, il rosa delle mani e dei visi… l’oro della luce nei capelli sciolti, fluidi, felici. Felici, anche se la vita rimane inganno, strage, ipocrisia. Cruda ed astuta, come me, per difesa, per salvezza, per necessità. La rabbia che muoveva i miei passi è sempre stata per la vita e dentro la vita, mai contro di essa, mai lontana da essa.

L’orrore è tornato, ottuso, insistente. Parole come pugni ciechi nelle orecchie. Uno sguardo prosciugato di ogni stilla di umanità. Gli occhi spenti del ragazzo grasso che uccide il sergente aguzzino e si uccide. Quel ragazzo ero io. Ero io il sergente. O forse eri tu. Forse eri tu.

Mi hanno accusato di eccesso, di calcare i toni, di indulgere nella raffigurazione della violenza. È vero. È così. Ma era il mio modo di estirparla, di vomitarla fuori dalla mente e dallo stomaco, di mostrarla al mondo, nuda, fumante, tagliente come lama affilata in ciascuno dei sensi. Ho dovuto plasmare melma e sangue per diventare uno specchio, icona lacerata e fedele dell’uno e del tutto.

Se veramente l’avessi amata, la violenza, l’avrei cosparsa di vernici cromate, l’avrei incipriata e imbellettata, l’avrei resa ruffiana, bifronte, patinata, innocua in fondo. Ma ho voluto osservarla negli occhi, lasciare che la lama squarciasse le arterie e facesse defluire batteri putrescenti.

Ho coltivato la magia da baraccone che ho avuto in dono. La giostra della luce, il roteare dei colori, il rincorrersi dei suoni sul filo di un brivido sospeso nel vuoto. La scatola magica della macchina da presa ti consente di operare prodigi. Una lieve variazione di prospettiva trasforma una catapecchia in un palazzo, un nano in gigante, la gobba di uno sgorbio in un soffice colle e viceversa.

Ma tutto ciò ha un prezzo, richiede una contropartita. Pretende dedizione, fedeltà, rispetto. Per dare forma e respiro al miracolo si deve cercare l’immagine nitida, sincera. La sola autentica. La sola possibile. Rincorrerla finché c’è fiato e catturarla così com’è, come deve essere. Vale sempre la pena fissare un’immagine sulla pellicola. Si, vale la pena, dopotutto. Se è bella l’avrai afferrata, l’avrai strappata al nulla. Se è brutta l’avrai bloccata, avvolta in un laccio senza fine.

(Il resto del racconto su Poetarum Silva: Osservazioni postume di Stanley Kubrick http://http://poetarumsilva.com/2014/11/29/ivano-mugnaini-shining-osservazioni-postume-di-stanley-kubrick )

L’ALGEBRA DELLA VITA

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Scrittore realista, dotato di una percezione acutissima di quella psicopatologia della vita quotidiana attraverso cui si esprime il malessere di un’epoca, Ivano Mugnaini, ne L’algebra della vita ( Milano, Greco e Greco Editori, 2011) ci cala in questi racconti, tanto più terribili e coinvolgenti quanto più anodina e ordinaria è la materia di cui sono costituiti, in un universo medio, né sublime, né reietto. Lo sguardo di Mugnaini entra infatti, con sorprendente naturalezza, negli appartamenti, nei salotti, nelle camere da letto, si insinua nei recessi più segreti a fotografare il miscuglio di angosce, di meschinità, di strambi ideali e improvvise emozioni che muovono i personaggi di questa sua minima commedia umana.

Ma c’è di più, la scrittura di Ivano Mugnaini ha qualcosa di singolarmente vigoroso: nella scelta dei vocaboli, nel tessuto asciutto ma tagliente delle frasi, nel suo periodare incalzante eppure equilibrato in cui fonde la fredda precisione del clinico ad una pietas che svela la vocazione etica dell’autore e rende questi racconti piccoli capolavori, a volte venati di un umorismo livido e glaciale. La letteratura, in queste pagine, sembra quasi aggredire e sforzare la realtà, investirla di valore, sentirne il palpitare aggrovigliato e indistinto e immergersi in esso per riconoscere ciò che brucia sia nelle sue immagini apparenti che nella sua più intima profondità.

Mugnaini cerca, in ogni momento della narrazione, una dimensione “forte” della letteratura, scrivere è per lui confrontarsi con la materia viva della corporeità, interrogare ed indagare l’ambiente fisico, storico e quasi biologico dell’esistente, vedere e capire il fondo dell’essere umano nella violenza e nella tenerezza dei rapporti che lo costituiscono, raccogliere il colore dei luoghi e dei tempi, cercare dietro le apparenze del mondo i suoi equilibri sempre provvisori, come le tracce di esperienze vitali sempre presenti a se stesse. La letteratura, che ne L’algebra della vita possiede il dono dell’erranza, cerca così una parola essenziale sulla situazione del mondo, rintraccia il senso del presente spesso rivelato da segni resistenti del passato e da una irrazionalità sotterranea che può suggerire, nel lettore accorto, un’eco luminosa da seguire, come la partitura appassionata e disperata di un crescendo inaspettato.

La bellezza con cui la scrittura si rivela in questo libro, si configura dunque come la via faticosa per forzare la realtà, per catturare nella pagina i particolari sfuggenti e fissarli in una sorta di definitiva e impossibile precisione. Nel succedersi dei racconti, si sente infatti la gioia di un’invadente e sfuggente molteplicità, unita alla disperata ostinazione di chi assedia le cose (e nello stesso tempo se ne sente assediato) e si accosta alle loro forme come a partire da una chiusa, immedicabile, sofferenza: spesso le parole si aggiungono alle parole nell’intenzione di precisare e specificare, di dare contorni più fermi e avvolgenti alla materia e l’effetto di questa ostinazione linguistica è sostenuto da una sintassi dai contorni netti e squadrati, che sfugge ad ogni esito di sfumato, trasferendo la scrittura su un piano di alta tensione letteraria. Mugnaini non cerca un movimento narrativo lineare e uniforme: non ci fa venire incontro, come in un’indagine, il manifestarsi della realtà con un succedersi incalzante di eventi e “esistenti” che, nella loro immediatezza, prevaricano la forma ma con una serie di vere e proprie “stazioni”.

Tutti i personaggi cercano infatti, goffamente o in modo pazzoide e infantile, o con cieca determinazione, un “senso” che vada oltre il loro rabbioso e creaturale istinto di sopravvivenza, in un susseguirsi di racconti che sono appunto delle “stazioni”: ciascuno di essi sembra isolarsi nel bozzolo della propria narrazione, come ad offrire uno squarcio particolare del mondo rappresentato ma, dall’insieme di questi racconti, risulta una logica serrata che conduce, con un movimento circolare, ad una serie infinita di alternanze, segni, figure e richiami simbolici che accompagnano vicende e movimenti dei personaggi, in un incastro archetipico dell’esistente e della sua rappresentazione.

La prosa di Mugnaini segue, con la sua incontenibile volontà di vivisezionare il reale, anche una sorta di ostinata ed incontenibile narrazione poetica, in cui il raccontare è in ogni momento ricerca di senso, interrogazione sul valore dell’esistenza attraverso il tendere alla parola, attraverso le contraddizioni del mondo. Le narrazioni si snodano infatti in un vario emergere di momenti, situazioni, immagini, incontri, ciascuno dei quali rappresenta un nodo da cui si sprigiona una tensione, un viluppo di significati che chiama in causa storia e destino dei protagonisti e che trae luce da uno spasimo radicato nel più profondo abisso del nostro corpo: lo spasimo e la smorfia dell’uomo che sa di essere lo scriba imperfetto e disperato di un destino già scritto e, soprattutto, di una storia che si è costretti a vivere non per scelta.

IL SEGUITO DELL’ARTICOLO FIRMATO DA ANTONELLA PIERANGELI A QUESTO LINK: http://criticaimpura.wordpress.com/2012/10/03/supplementi-dindagine-e-controperizie-sulla-leggibilita-del-mondo-lalgebra-della-vita

Sulle tracce di un siciliano europeo: Tomasi di Lampedusa

Tomasi di Lampedusa

“C’era una volta un principe…” colto, fiero, nato a Palermo, siciliano doc e al contempo cittadino del mondo. Difficile dire dove inizi il Principe di Lampedusa e dove finisca quello di Salina. Per tutti è il Gattopardo, il romanzo icona che continua ad affascinare generazioni e le cui orme sono profondamente impresse nel nostro DNA.
Ma l’uomo, lo scrittore, il letterato e il viaggiatore possono essere riassunti nella sola figura del “Principe”?
Il punto interrogativo è d’obbligo quando si tratta di discernere tra l’uomo e il personaggio letterario e ancor più allorché si cerca di trovare una chiave di lettura di un autore celebre per un unico, grande romanzo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa è una figura a tutto tondo che non può essere letta solo alla luce del suo celeberrimo libro o per la sicilianità che incarna e descrive. Egli fu molto di più e, attraverso l’esplorazione delle sue rotte storiche, geografiche e biografiche, si tenterà di tracciare un ritratto diverso dell’autore, lontano dalle cornici di maniera, barocche ma tarlate e inconsistenti. Ne risulteranno i tratti di uno scrittore e di un uomo ricco di sfaccettature e di polifoniche voci.
Lampedusa, dunque. Non è forse casuale rilevare che quello che per lui fu il punto di partenza, oggi per molti è un punto di arrivo, il traguardo di una speranza. Lampedusa è una propaggine d’Europa nel cuore del Mediterraneo, terra di confine e di approdo nota per sbarchi, annegamenti e traffici di vite umane dalle coste della vicina Africa. La storia cambia ma restano, pur nelle differenze, delle costanti, le caratteristiche immutabili degli esseri umani, gli stati d’animo, le miserie e le grandezze, il bisogno di un suolo di certezze e sul fronte opposto il fluire del mutamento che sradica e sconvolge.
Per queste e per altre misteriose ragioni, per questo miscuglio di antico e moderno, poetico e razionale, antropologico e filosofico, Tomasi rimane a tutt’oggi un autore attuale, ancora in grado di far coesistere caratteristiche differenti generando punti di vista contrastanti, influenze e dibattiti tra i lettori e i critici. Il suo Gattopardo è diventato con il passare degli anni molto di più di un romanzo di successo e di una popolarissima pellicola. Si è trasformato in un’icona, uno spunto infinito per citazioni. È diventato un modo di dire, il simbolo di un’epoca e di un modo di pensare, identificabile quasi con il marchio del copyright, come l’aspirina o la coca cola.
Come spesso accade però, nella letteratura, nella vita e lungo quel punto ventoso e oscillante che le unisce e le divide, tra le parole e la verità, tra l’uomo e l’opera, c’è un bel tratto di mare. Nel caso specifico di Tomasi, le onde in questione sono quelle tra Scilla e Cariddi, tra la Sicilia e il Continente, non solo l’Italia, ma l’Europa.

Come accadde ad un altro siciliano dal carattere complesso e multiforme, Luigi Pirandello, anche Tomasi fa rotta verso il nord.
In cinque anni di intensi viaggi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ebbe modo di conoscere a fondo alcune delle principali capitali europee. Cercava lo spirito autentico dei luoghi e dei popoli, il volto vero da confrontare con quello del suo Mediterraneo. Scoprì la bellezza mite di Parigi e si trovò particolarmente a suo agio a Londra, città che trovò ricca di bonomia. Esplorò però anche il fascino più cupo e intrigante di Berlino. Visitò musei, ma anche le vie trafficate dal popolo e i tracciati già resi mitici da grandi libri del passato. Frequentò salotti alla moda ma anche locali di ricreazione e fu attratto da tutto, assimilando con vivida curiosità. Viaggiava con un repertorio di citazioni e scriveva lettere di rigogliosa fantasia in cui confermava la sua sete di conoscenza. Anche lui, seppure molto distante da un altro affabulatore immaginifico quale fu D’annunzio, ci teneva a dare di sé un’immagine spettacolare. Questa sua insaziabile verve ha trovato una sintesi ampia ed efficace nel suo “Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930” .
Tomasi di Lampedusa, schivo, raffinato, studioso vorace di letterature comparate, dà l’impressione di viaggiare per scelta, per divertimento e per arricchimento interiore, per il bisogno di staccarsi da radici profonde che lo nutrono e lo bloccano allo stesso tempo. Viaggia per la volontà di rendere la sua cultura effettivamente europea. Per essere un uomo di mondo prima ancora di essere scrittore. Non per sfoggio o per aristocratico orgoglio, ma per una sete sincera di conoscenza.
Duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, Giuseppe Tomasi nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Frequenta il liceo classico a Roma dove si iscriverà anche alla facoltà di Giurisprudenza, senza però laurearsi perché chiamato alle armi. Partecipa alla disfatta di Caporetto e viene fatto prigioniero dagli austriaci. Conosce quindi l’orrore della guerra, la più cruda e vera, quella che annulla il divario tra nobili, borghesi e uomini del popolo. Quella che rende evidente e crudelmente vera la fragilità della condizione umana, la ferocia del tempo e della Storia ma anche la forza di restare aggrappati ad una Bellezza che rappresenta la sola fonte di sopravvivenza dell’umanità.
Tomasi di Lampedusa fu spesso ospite del cugino, il poeta Lucio Piccolo. Grazie a lui ebbe occasione di frequentare ambienti letterari di alto livello, come nel 1954 in occasione di un convegno letterario a San Pellegrino Terme in cui conobbe, tra gli altri, Eugenio Montale e Maria Bellonci.
Al ritorno da quel viaggio, come un vulcano giunto al livello di pressione giusto, Tomasi inizia a scrivere Il Gattopardo, il romanzo di una vita, di molte vite reali e possibili. Verrà terminato due anni dopo, nel 1956.
Il suo romanzo viene definito come un esempio di “poesia in forma di prosa”. Perché la forma poetica possiede la capacità di mettere in contatto e sintetizzare istanze e sensazioni contraddittorie tramite la coincidentia oppositorum. L’ancorarsi al passato era un gioco di specchi per parlare del presente e del futuro.
E tuttavia, fu proprio questa sua strana ambivalenza tra moderno e antico che provocò il rifiuto del libro da parte di molte autorevoli case editrici a cui era stato presentato. Respinto prima dalla Mondadori e poi da Einaudi sempre ad opera di Vittorini che era il selezionatore delle opere, il romanzo fu scoperto e apprezzato da Bassani che lo propose alla Feltrinelli che lo pubblicò. E fu un successo strepitoso. Purtroppo Tomasi di Lampedusa era già morto nell’amarezza e nello sconforto di non aver potuto vedere pubblicata la sua opera. Un episodio questo che getta ombre sulla critica letteraria e sull’editoria, purtroppo non del tutto archiviabile ai tempi d’oggi.
Il Gattopardo è un caso più unico che raro. Tomasi di Lampedusa era un outsider per quanto riguarda il mondo letterario ufficiale, nel quale permaneva in vizio antico della chiusura al nuovo, non importa di quale provenienza.
Ma qui ed ora, dopo che la vicenda si è comunque conclusa con il successo clamoroso del libro di cui l’autore non ha potuto beneficiare in vita, è possibile forse tentare di cogliere elementi dello scrittore e dell’opera di più ampio respiro.
Tomasi di Lampedusa è stato sì, per dirla con Montale, “l’autore di un solo libro”, ma in questo volume ha racchiuso una vita intera di esperienze di respiro europeo, assimilate senza preconcetti, con passione autentica. Il Gattopardo è la risultante di un lavoro di accumulazione di note e sensazioni durato anni, scritto con una forma espressiva capace di coniugare la sintesi metaforica della poesia e l’esattezza documentaria del romanzo storico. Il romanzo era allo stesso tempo imbevuto di stilemi classici e proiettato verso forme e prospettive nuove. Era in anticipo sui tempi, pur parlando di un’epoca già passata. Collocato in questa terra di confine, il libro ebbe bisogno di una lenta assimilazione prima di essere percepito dai critici come opera di assoluto valore. Il resto è storia: della letteratura e della cinematografia.
Il Gattopardo è il risultato di un innesto in gran parte inusitato: la cultura europea impiantata sui rami antichi e nodosi della Sicilia, il vento nordico sui silenzi e l’aria ferma di troppi secoli di inazione, come sottolineava il Principe di Salina in un celebre passaggio: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali”.
Nel Gattopardo il romanzo trascende il romanzo. Il libro è così ricco di contenuti da prestarsi a molteplici e parallele chiavi di lettura: storica, filosofica, psicologica, sociale, geo-politica. Ma è anche un libro coraggioso, in cui lo sguardo sui retaggi culturali che hanno creato l’humus mafioso è assolutamente schietto.
Come nelle stratificazioni geologiche, questo libro va ben oltre l’affresco storico, oltre il racconto, oltre i personaggi, i luoghi, i costumi. In questo contesto si inserisce la citazione per eccellenza, lo stemma che campeggia sul romanzo e lo identifica in modo immediato:
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Il Gattopardo racconta l’umanità, i dubbi e le speranze di uomini e donne del proprio tempo di fronte ad un mondo che cambia e ridefinisce valori, canoni e stili. Racconta come gli uomini si pongono di fronte al cambiamento e come le identità, le storie e la cultura si misurino col tempo.
Considerare Il Gattopardo un libro conservatore è un atteggiamento in gran parte miope: c’è, viva e presente, la consapevolezza dei mali storici della Sicilia. Vista non come microcosmo a sé stante ma come emblema di un modo di vivere e di pensare antico che si trova nella necessità di guardare con occhi diversi a tempi nuovi. C’è una forma di critica sociale forte ed evidente nel libro. L’amore per la propria terra non è cieco.
I personaggi del romanzo sublimemente avvolti di umanità, sono cesellati nella loro ambivalenza. Questa con ogni probabilità è la parola chiave: ambivalenza. Il romanzo si colloca ad un punto di snodo fondamentale della storia italiana e non solo. Quel momento in cui ci si rende conto che una certa società, un determinato sistema di vita e di pensiero è destinato ad essere superato dai tempi, dalla Storia. Tomasi tuttavia non lo vive con un atteggiamento passivo e rassegnato. Non è un cantore acritico del passato, non esalta incondizionatamente i tempi andati, les neiges d’antan. Il fulcro del suo pensiero è la volontà di portare nei nuovi tempi quanto di meglio c’è nella tradizione e nel legame autentico che deriva dalla terra d’origine. È anche grazie a Tomasi di Lampedusa se gli italiani hanno coscienza del loro grande dono e della loro condanna.
Lo sguardo distante, malinconico e nostalgico del Principe di Salina da un lato, lo stile narrativo dell’Autore-Principe, non devono trarre in inganno. Il libro urla verità senza tempo, svela le illusioni, le trappole e i miraggi dei cambiamenti repentini, i pericoli dei furbi e dei voltagabbana, denuncia l’immobilismo al pari del progressismo, insegna a guardare oltre l’apparenza, oltre il contingente, in un’ottica per dirla alla Leibniz, sub specie aeternitate.
Il Gattopardo è un’opera dall’altissimo valore educativo intergenerazionale, perché ogni epoca, così come ogni uomo, è sospeso tra due estremi, un presente che muta ad ogni istante e un passato che sfugge, scivola via, tende a diventare irriconoscibile. “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. In questa dichiarazione, all’interno di questa tensione, si trova forse la chiave del successo e del fascino intramontabile del romanzo e del suo autore: il senso della finitezza umana ma anche la volontà di ritagliarsi con tenacia uno spazio all’interno del disegno imperscrutabile del tempo.

Pier Paolo Pasolini, tra fame di vita e archetipi di luoghi

pasolini

In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano. Un pò come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini, il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente, si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.
I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
E ancora:
“Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini_borgata_RomaPasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”.Pasolini-mamma-romaMamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:
Io sono una forza del Passato.
 Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)

Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.

…Ciasarsa
- coma i pras di rosada -
di timp antic a trima.

(…Casarsa
- come i prati di rugiada -
trema di tempo antico.) (B, I, 17)
Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica.
In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali: “Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l”Idiota’ di Dostoevskij, mi ricorda il ‘Macbeth’ di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”. E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.
Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembra immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.

Leopardi vs Leopardi: Pisa, il Lungarno e l’appetito del “giovane favoloso”

Giacomo_Leopardi
Ci sono luoghi che ti entrano dentro, e senza accorgertene, ti trasformano. Fu così anche per Leopardi che a Pisa si trovò a vivere un periodo del tutto nuovo, un’epoca diversa, sia a livello creativo che sul piano esistenziale.
“Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”, scriveva il poeta.
Una distanza minima quella di Pisa rispetto a Firenze, la città dove risiedeva in precedenza, ma resta comunque grande la distanza tra il Leopardi fiorentino da quello pisano. La domanda, the question, è pertanto la seguente: fu la città di Pisa a trasformare il poeta, oppure, semplicemente, gli consentì di manifestare ciò che aveva sempre avuto dentro, una componente essenziale del suo modo di essere e di sentire, una sua natura alternativa, se non, addirittura, preponderante? Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto un illustre collega di Leopardi. Il problema è che noi, hic et nunc, ampiamente posteri, siamo anche ampiamente incerti riguardo ad una possibile risposta.
Parafrasando Montale potremmo dire che tutto ciò che sappiamo è quello che non abbiamo, quello che non è.
Di sicuro Leopardi non era e non è la figura deforme e monocorde stigmatizzata in molti libri scolastici in stile Bignami.
Non era e non è, Leopardi, il pessimista che esalta la fugace bellezza del sabato per poi ripiegarsi frustrato nel disincanto della domenica. Non è quello che gli adolescenti di oggi, con una definizione sbrigativa ma efficace, definirebbero un “gobbetto sfigato”.
Non era e non è, Leopardi, solamente l’omino chino sulle sudate carte o recluso nella biblioteca del padre già del tutto assimilata e metabolizzata in tenera età. Leopardi è questo, ma è anche e forse soprattutto un uomo vorace di vita, quella stessa vita che ha scrutato con occhio filosofico e rigoroso, senza mai però smettere di guardarla con profondo interesse e naturale curiosità.
E’ anche l’uomo che mentre traduce dal greco e dall’ebraico disegna vignette corredate da didascalie, volutamente infantili, dedicate alla saggezza popolare o a freddure dense di spirito lieve. E’ l’uomo di origine nobile che ascolta i rumori del villaggio, i suoni, i canti, la musica, percependo il lusso di una semplicità d’animo che a lui non è toccata in sorte ma di cui subisce la fascinazione. Lo stesso fascino enigmatico e vitale che percepisce nelle donne, da sempre corteggiate e inseguite per la loro sfuggente e imprescindibile malia.
Il poeta di Recanati era immerso nel passato ma anche estremamente attento al suo tempo, quello personale e quello dell’epoca storica in cui visse. Impegnato nella ricerca di un cambiamento, anche quello della nazione, afflitta da schiavitù, ingiustizie, squilibri e miserie rispetto a cui sarebbe bello poterci dire postumi.
Questa creatura complessa e multiforme, arrivò al momento giusto, nella giusta stagione, in una città che forse gli somigliava: radicata nel territorio ma anche punto d’incontro di viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati, fervida di salotti colti ma non ingessati, aperti alle idee nuove, anche rivoluzionarie. Città famosa per gli studi, ma ben lungi dall’essere un museo, avvolta semmai da una bellezza vibrante, come quella che scorre nell’alveo del fiume e nei viali che lo circondano come in un abbraccio, i Lungarni.
A Pisa Leopardi trova il modo di armonizzare la sua sete di vita con la sua necessità di dare ordine al suo patrimonio di ricordi ed emozioni. Trova stimoli ma anche lo spazio per riflettere ulteriormente, facendo nuovi progetti, nuove ipotesi di ponti tra sé e l’esistere.
Partendo da questo presupposto, si fa meno fatica a pensare che il passeggiatore trasognato di via delle Rimembranze sia lo stesso autore che definiva la vita come sventura e inganno. Si fa meno fatica a immaginare il sorriso del poeta lungo le strade che risuonano di voci.
Per Leopardi Pisa fu lo sbocciare di una primavera nel pieno dell’inverno. Egli vi arrivò nel novembre 1827 per sfuggire ai rigori dell’inverno fiorentino, e vi si trattenne fino al giugno ’28.
In una delle lettere inviate dalla città toscana alla sorella Paolina ebbe a scrivere: “Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo Lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma, veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta. In certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni; vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito” (12 novembre 1827).
Non sarebbe pertanto un paradosso suggerire agli odierni amministratori della città di apporre una postilla all’iscrizione sul Lungarno dedicato a Leopardi sottolineando che a Pisa oltre che a ritrovare la vena ispiratrice il poeta ritrovò anche l’appetito. Perché in questa annotazione, apparentemente banale e prosaica, in realtà c’è moltissima poesia e la sintesi tra grandezza e umanità, natura eterea e carnalità.
In quest’epoca che tende a “smaterializzarci”, a ridurci a icone di smartphone, sorridiamo a nostra volta immaginando gli impulsi genuini di un uomo che aveva fatto della parola e del pensiero, del ragionamento poetico-filosofico, la sua essenza. Pisa gli conferma ciò che ha già insito: la sua fame di vita. Gli permette di osservare la bellezza senza essere soffocato dal gelo della riflessione. La mescolanza dell’urbano e del contadino, della Pisa mondana e della Pisa intimista, lo affascina e lo coinvolge. In questo clima potrà scrivere due delle sue più importanti composizioni, così apparentemente distanti l’una dall’altra, ma in fondo accomunate dal filo di un sentimento identico declinato in forme diverse, l’amore: “A Silvia” e “Risorgimento”.
Pisa dunque, come zona franca, opportunità rara e preziosa per il lusso di dialogare con il vero se stesso. Forse anche Leopardi avrebbe condiviso le parole scritte molti decenni dopo da Albert Camus: “ Solitudine e sete d’amare. Pisa, finalmente, viva e austera, coi suoi palazzi verdi e gialli, le sue cupole e, lungo l’Arno, la sua grazia. Città pudica e sensibile. E così vicina a me di notte nelle strade deserte che passeggiandovi solo, la mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. Qualcosa di aperto in me incomincia a cicatrizzarsi”.
Con le parole di un altro scrittore, Gianni Rodari, si può arrivare forse ad una conclusione che, pur nella sua forzata semplicità, ci avvicina di un passo, come in una marcia infantile e sorridente a un’ipotesi: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”. A Pisa Leopardi scopre che nell’errore della vita, così storta e asimmetrica, c’è la tenacia della bellezza e la bellezza di una tenacia che ha in sé qualcosa di semplice e arcano, ostinatamente ammaliante.
O magari siamo noi, proprio noi, a scoprire o riscoprire nelle nostre rispettive città, nelle nostre affollatissime solitudini, che ci sono “errori”, persone fuori da ogni schema, che contengono in sé tutta la complessità e la ricchezza della natura umana, persone non riducibili a formule univoche, connotate dalla sola costante di una cangiante ma ininterrotta ricerca di territori adatti alla bellezza e alla poesia.

Roma è davvero solo un fondale?

 

 

moravia

 

La prima esplorazione sulla Roma di Moravia che ha inaugurato la rubrica “Viaggi al centro dell’autore” è risultata vincitrice del premio ‪#‎InWebWeTravel‬ 2015 sezione Lazio nell’ambito del Festival della Letteratura di viaggio.‪#‎LetteraturadiViaggio‬ .

 

Roma è davvero solo un fondale?

In occasione dell’anniversario della morte di Alberto Moravia, avvenuta il 26 settembre 1990, mi accingo a scrivere di Roma, di quella Roma vissuta ed interiorizzata dallo scrittore che ne fa non semplicemente lo sfondo dei suoi romanzi ma uno specchio della società e dei suoi profondi cambiamenti. Da via Sgambati dove Moravia ebbe i natali in zona Pinciana alla sua casa a Lungotevere Vittoria. Per Moravia Roma è un misto di vitalità e decadimento, un humus letterario nel quale immergere le sue storie, i suoi personaggi, le contraddizioni di una società che si va progressivamente disgregando e corrompendo.

Così ebbe a scrivere Moravia su Roma: “Sono nato e vissuto a Roma e ho avuto sempre gli stessi problemi insoluti e insolubili nel mio rapporto con la città”. «Una piccola città mediterranea, quasi più piena di monumenti che di case», una città che ha tentato sempre invano di trasformarsi in una vera capitale europea senza riuscirci poiché sempre un po’ provinciale.

Una città costretta dalla Storia ad assumere un ruolo internazionale senza essere mai in grado di staccarsi dalle radici antiche, fino a costituire un reticolo sconfinato di rioni e quartieri, quasi cittadine adiacenti, repliche infinite di un modello antico, un ibrido immenso.

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Ma forse proprio per questa natura ambigua, accattivante e straniante, gentile e spietata, rozza e raffinata, Moravia trova a Roma lo spazio ideale, lo specchio per la sua stessa indole, umana e letteraria. Lo scrittore Alberto Pincherle era allo stesso tempo aristocratico e immerso nella carnalità, o almeno nel desiderio della carnalità, come un gourmet cerebrale e combattuto che non tocca gli oggetti ma si inebria in segreto di odori e profumi, senza confessarlo neppure a se stesso. Pincherle, mezzo marchigiano e mezzo veneto, per metà nordico e per metà dell’Italia centrale, con una voglia di solarità contrastata da uno Stato Pontificio ancora presente a dispetto dei secoli, trova a Roma l’oggetto ideale per il suo amore e il suo odio. Perché si può odiare solo ciò che si ama profondamente, ciò che ci assomiglia, e quindi ci spaventa, nell’atto stesso di attrarci in modo irresistibile. Moravia, costretto a fare i conti con la sua origine borghese, vissuta come privilegio e colpa, messa a confronto in modo ineluttabile con la radice schiettamente popolare del suo amico-collega Pasolini, a Roma, negli ambienti della sinistra fedele ai dettami ideologici, vive da straniero, come il protagonista del romanzo di Camus, alla ricerca di una verità autentica che sfugge continuamente. Non gli resta allora che utilizzare le armi che ha a disposizione, la parola, la scrittura, la fuga e il ritorno.

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Moravia ridisegna la città nei suoi libri e nei suoi scritti. Non per trasformarla in un’improbabile Arcadia moderna. Per tramutarla, piuttosto, in un luogo vivibile, per lui e per tutti gli esseri complessi e multiformi, gli stranieri che necessitano radici e gli indifferenti che provano, a ben vedere e sentire, profonde passioni. Riscrive la toponomastica della città, ma in modo che ogni luogo reale sia riconoscibile. In pratica allontana la donna amata ma senza lasciarla uscire dal raggio del suo abbraccio e del suo sguardo.

Lo stesso avviene anche con le sue innumerevoli fughe, i viaggi all’estero, lunghi, infiniti, in luoghi esotici veri, difficili, non da cartolina illustrata. L’India, la Cina, l’Africa, luoghi fertili di umanità sofferente e vitalissima. Distanti, dal suo mondo, dal suo elegante Lungotevere Vittoria.

Eppure, l’eterno ritorno, una volta ritrovata la macchina da scrivere, è quello nei luoghi angusti della città eterna. Moravia rifugge i grandi spazi, ha bisogno di concepire storie che si svolgono tra le stanze di un appartamento, i corridoi, le stanze da letto. Si immerge nelle vastità del mondo per poi ritornare a pensare ai microappartamenti romani, là dove si svolgono guerre invisibili e micidiali, là dove l’umanità combatte le battaglie evolutive, quelle per la sopravvivenza, quelle della resistenza all’assurdo, alla pressione annichilente dei rapporti interpersonali, a quella noia invisibile e strisciante che avvelena la voglia di vivere.

La Roma di Moravia non è mai quella da dépliant turistico ma neppure quella dei quartieri degradati, con il cemento grigio e grezzo che divora prati periferici.

La sua Roma è allo stesso tempo un’idea e un ascensore reale, di metallo, che conduce ad una casa reale, borghese, con tutto il bene e tutto il male che può contenere, sia l’abitazione borghese che la parola che la definisce.

Per questa ragione Moravia e Roma sono un binomio così forte, perché è una simbiosi autentica, fatta di attrazione e paura. Roma è l’amante imperfetta da cui lo scrittore e l’uomo Moravia si staccano per poi ritornare, nel momento stesso in cui si accorge di non essersene mai allontanato veramente, neppure a migliaia di chilometri di distanza.

Roma è l’amante che cambia con gli anni, restando alla fine se stessa. Quella che si vorrebbe vedere mutare veramente, lasciando dietro di sé le meschinità, le minuscole e becere ruberie, le furbizie da poco e gli intrallazzi autolesionistici. L’amante che si spera possa cambiare dentro, e invece muta solo pelle, diventando solo ricoperta di plastica dai colori fosforescenti. Dentro, rimane la stessa. Ma tutto ciò non cambia l’amore nei suoi confronti. Non lo muta di segno né di intensità. Perché quella imperfezione, quel mutamento fittizio e sofferto, è lo specchio delle contraddizioni che Moravia sente e percepisce intensamente in ciò che vive e ciò che scrive.

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Per Alberto Moravia Roma è il luogo dove ritornare dai suoi continui viaggi che lo videro protagonista fino agli ultimissimi anni di vita.

I viaggi gli permisero di sperimentare il cosmopolitismo, di confrontarsi, di conoscere grandi personalità politiche quali Nehru, Tito, Arafat, Ceausescu e Castro e che egli seppe far rivivere in molti articoli e libri ad essi dedicati.

La vita romana di Moravia si muove per il centro tra le case di via Sgambati al quartiere Pinciano, via dell’Oca a Ripetta e quella ultima sul Lungotevere della Vittoria. Difficile da inquadrare tanto è distante la Roma dei salotti da quella delle vecchie borgate o delle attuali zone dormitorio. La città è un arcipelago e il punto di vista di Moravia è necessariamente parziale. Eppure, proprio per questa ambivalenza intrinseca, il suo modo di narrare, il suo approccio con la materia descritta nei suoi libri, forniscono una delle rare immagini in grado di riassumere in un’unica cornice i volti contrapposti, le diverse nature, gli errori e gli orrori, le debolezze e gli slanci, sia della sua specifica città di elezione sia, in un contesto più ampio, di tutti gli esseri che, tra città e borghi, mura soffocanti e progetti di orizzonti, provano a tramutare la noia in vita e il disprezzo in attenzione.

Roma, anche grazie a Moravia, rimane un sentimento che ti lega senza alcuna catena. Non una destinazione, un’icona, un topos, ma parte integrante di chi la vive e l’ha scelta, volente o nolente, come suo “fondale”.